L'altro giorno mi ha chiamato una ragazza dalla Campania. Ha trovato il mio recapito cercando con Google, ha visto il mio sito, i miei video, le sono piaciuti e ha deciso di telefonarmi.
Le ho detto che riceverla di persona sarebbe stato più complicato, dato che sono localizzato a Firenze, ma che lavoro in videochiamata. Anzi, che ormai lavoro più in videochiamata che in presenza.
"Ah, dottore, grazie, ma è sicuro che gli interventi in videochiamata siano efficaci come quelli di persona? Perché io stavo cercando un terapeuta per incontri di persona."
"Guardi" le ho detto "già diversi studi hanno concluso che per molti dei comuni problemi che le persone portano dallo psicologo, l'efficacia d'intervento è la stessa, sia con incontri di persona, sia in videochiamata.
"Beh, il mio problema è che penso troppo."
"Ogni caso è un caso" le rispondo "ma per i problemi d'ansia non c'è praticamente differenza, questo glielo posso dire già da adesso."
"Cioè, ma quindi lei ha già capito che soffro d'ansia? E come ha fatto?" mi dice ridendo la ragazza.
Ognuno di noi è convinto di essere unico e irripetibile. Ed è vero. Certifico ufficialmente che anche tu sei unico e irripetibile. Proprio come chiunque altro.
Quella dell'unicità è una questione interessante, perché ad esempio tutti abbiamo due occhi, un naso e una bocca. E la capacità del cervello di riconoscere le facce, cioè di capire che quello che stai guardando è il volto di un essere umano, però diverso da quello che stavi guardando prima, è sorprendente.
Il cervello è bravissimo sia a trovare tratti in comune, sia a trovare differenze e a classificare le cose.
Tutti abbiamo un'area nel cervello, l'area fusiforme facciale, specificamente dedicata al riconoscimento delle facce e che esiste fin dalla nascita. Riconoscere i volti è così importante, per noi, che l'evoluzione ha finito per scrivere un software - anzi, un firmware - specifico.
Nasciamo già sapendolo fare.
Il firmware, per i non informatici, è quella parte di software già presente nei computer dalla fabbrica, che parte non appena il computer si accende e che serve per caricare il sistema operativo e per le altre funzioni di base.
Il riconoscimento delle facce è quindi considerata, per noi, una funzione di base.
Per questo tutti - o quasi - siamo in grado di riconoscere gli altri con facilità. Chi è affetto da prosopoagnosia però, o da demenza, non ci riesce.
Nessuno di noi nasce con aree del cervello dedicate specificamente al riconoscimento dei problemi psicologici.
Un terapeuta o uno psicologo con sufficiente esperienza, però, lo può fare. Con l'esame obiettivo, guardandoti, ascoltando il modo in cui parli, cosa dici, le domande che fai, le pause che non fai.
Per fare una psicodiagnosi di massima possono bastare cinque minuti.
Nel caso della ragazza che dicevo, il modo affrettato e concitato di chiedere informazioni metteva ansia già di suo. Quando poi ha aggiunto: "Il mio problema è che penso troppo", per me è stato automatico dire "ansia".
Se invece mi avesse fatto una domanda sola, parlando lentamente, soppesando le parole, con pause lunghe, sospirando e dichiarando che non ha più voglia di fare niente, la testa mi avrebbe probabilmente sussurrato "depressione".
Ma in questo caso non gliel'avrei detto così, appena conosciuta. Primo perché una diagnosi di depressione è delicata. Depresso, ok, ma quanto? In che modo? Ha già pensato di farsi del male, oppure no? E poi perché dire a qualcuno "sei depresso" può avere effetti diversi. A volte controproducenti. Per telefono, poi.
Se invece mi avesse fatto domande difficili, magari in tono di sfida, sospettoso, e con voce più aspra: "Sa, perché in fondo io non la conosco. Lei potrebbe essere un ottimo professionista, ma anche un ciarlatano. Mi perdoni, sa, ma oggi non ci si può fidare di nessuno", sarei stato portato a sospettare, a mia volta, un atteggiamento persecutorio.
E anche lì sarebbe stato meglio non farlo presente. Strategicamente, dire a qualcuno "sei un po' paranoico" non è il miglior modo per avviare una buona relazione, né terapeutica né di altro tipo.
Anche se in prima approssimazione possono bastare poche battute per capire un altro, una diagnosi vera e propria, valida e possibilmente attendibile, richiede almeno un colloquio e la disponibilità dell'altro a farsi capire, oltre che la tua capacità a capire come diagnosta.
A parte il fatto che ogni diagnosi si basa su delle categorie precostituite, quindi se tu sei stato formato in un certo modo tenderai a diagnosticare dei sintomi in quel certo modo, che può essere diverso da quello di un altro.
Tu magari fai una diagnosi valida, all'interno del tuo schema di riferimento, ma non universalmente attendibile, cioè un altro professionista che usa uno schema diverso farà una diagnosi diversa e magari non riconoscerà la tua.
E comunque la diagnosi è solo il primo passo. Quello successivo consiste nel definire qual è l'obiettivo terapeutico, o di cambiamento, che la persona richiede.
E anche qui i modi di lavorare possono variare. Nel modo in cui lavoro io, ad esempio, si cerca di avere obiettivi definiti fin da subito, per quanto possibile.
Altri approcci sono invece più esplorativi. Non si prefiggono obiettivi chiari, ma vedono l'intervento come una specie di viaggio di scoperta, in cui dev'essere la persona a capire cosa vuole e dove andare, strada facendo. Che può funzionare, anche se quasi sempre richiede più tempo.
Il passo successivo, quindi, non è scontato e consiste nel lavorare per ottenere gli obiettivi prefissati.
Se invece non erano stati prefissati... beh, ogni rotta è buona per il marinaio che non ha una meta._