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Intervista di lavoro: ecco come Google assume le persone |
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"Non avrai mai una seconda possibilità per fare una buona prima impressione" diceva una vecchia pubblicità di shampoo.
Che ce ne rendiamo conto o no, l'idea che gli altri si fanno di noi si basa sui primi
10 secondi di primo contatto e i colloqui di lavoro non sfuggono a questa regola.
Volumi interi di psicologia del lavoro sono stati scritti su quei "primi istanti" che contano, descrivendo come l'intervistatore si formi immediatamente una valutazione iniziale del candidato, per poi passare il resto dell'intervista a
confermarla. Se il candidato gli va a genio, cercherà altre ragioni per farselo piacere di più. Altrimenti ne cercherà per rifiutarlo.
Lo psicologo Frank Bernieri e due suoi studenti, Tricia Prickett e Neha Gada-Jain, nel 2000 condussero uno studio secondo cui la valutazione formata nei soli primi 10 secondi dell'intervista era in grado di prevedere quale ne sarebbe stato l'esito finale.
Non è che gli intervistatori siano cattivi o superficiali. Senza rendercene conto, ognuno di noi attua continuamente ciò che lo psicologo chiama
confirmation bias, ossia la tendenza inconsapevole a cercare conferme a ciò che crediamo, sappiamo o riteniamo piuttosto che far caso alle informazioni che vanno in senso contrario.
Perciò l'ironia è che le predizioni di quello studio, nella pratica non servono a niente. Tutto sarebbe già deciso nei primi 10 secondi e il 99,4% del tempo restante del colloquio utilizzato per confermare l'impressione iniziale.
"Mi parli di lei." "Qual il suo punto più forte?" "E quello più debole?" Tutto inutile. Altrettanto inutili certi quiz che alcune imprese somministrano: "Il suo cliente è una fabbrica di carta che pensa di costruire un secondo stabilimento. Secondo lei, dovrebbe farlo?" Oppure: "Stimate quanti distributori di benzina ci sono nella vostra città." E non c'è limite al peggio: "Quante palle da golf entrano in un 747?"
Decenni di ricerca psicologica applicata al lavoro e alle organizzazioni hanno stabilito che
il miglior predittore del reale disimpegno di un lavoratore dopo l'assunzione è dato dal risultato raggiunto nell'esecuzione di un
campione del lavoro che dovrà svolgere in realtà.
Subito dopo, il secondo miglior predittore della prestazione lavorativa sono i risultati ai
test di efficienza cognitiva e attitudinali, fra cui i comunemente chiamati (e odiati dai più) test di intelligenza.
Terzo predittore, l'intervista strutturata. Qui al candidato sono presentate batterie di domande standardizzate, con criteri prestabiliti per la determinazione dei risultati e della valutazione, analizzando eventualmente casi reali di lavoro specifici per la mansione richiesta.
Anche i
test di personalità sono usati nelle valutazioni del personale, sia esterno per assunzione che per ricollocamento interno.
Laszlo Bock, uno dei pezzi grossi della direzione del personale presso la megaimpresa che ci ha dato il motore di ricerca più usato al mondo, sostiene che un
misto delle tecniche sopra darebbe i migliori risultati.
Ad esempio, guardare ai risultati dei
test attitudinali più il tratto di personalità denominato
coscienziosità, sarebbe sufficiente a garantire un'alta precisione nel valutare il futuro disimpegno del candidato. In particolare, la coscienziosità intesa come desiderio di
portare a termine i lavori iniziati.
Le interviste di lavoro sono sempre imbarazzanti, prosegue Bock, dato che prevedono uno scambio unidirezionale di informazioni personali, sensibili, provenienti da qualcuno appena conosciuto e che oltretutto si trova in posizione molto vulnerabile. È sempre opportuno far sì che la persona si senta il più possibile a proprio agio, sia perché parlerà con altre persone dell'esperienza avuta, sia perché questo è un ottimo modo di trattare le persone.
Ma quei 10 primi secondi...
Bibliografia:
Laszlo Bock. 2015. Here's Google's Secret to Hiring the Best People. Wired online.
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